Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 24 novembre 2020

Da dove passa l'emancipazione del lavoro

La debolezza delle persone nei confronti delle imprese è dovuta per la maggior parte al difetto di servizi efficaci, che consentano loro di conoscere e usare il mercato del lavoro per allargare le proprie possibilità effettive di scelta

di Pietro Ichino*

Chi scrive un manuale di diritto del lavoro, all’inizio del libro si sente in dovere di spiegare perché il rapporto di lavoro esige regole completamente differenti rispetto a quelle generali dei contratti. Qual è il motivo di questa disparità di trattamento fra contratti di diritto civile? La risposta che per lo più viene data è che c’è una strutturale mancanza di lavoro, uno squilibrio endemico fra domanda e offerta che determina la posizione di debolezza di chi offre il proprio lavoro; il pericolo di restare disoccupati induce dunque il lavoratore a prendere tutto ciò che gli viene offerto, senza fiatare e senza poter scegliere. Non c’è libertà effettiva di scelta; quindi non può esserci neanche il riconoscimento dell’autonomia negoziale da parte dell’ordinamento.
Questa è la spiegazione che viene prevalentemente fornita in apertura dei manuali. Ma, in verità, le cose non stanno sempre esattamente così. Alla fine del 2019, l’Agenzia nazionale delle politiche attive al lavoro (Anpal) e Unioncamere censivano in Italia 1,2 milioni di posti di lavoro qualificato e specializzato che rimanevano permanentemente scoperti per mancanza di persone disponibili a ricoprirli o in grado di ricoprirli.

Gli economisti del lavoro per lo più considerano che, al di sotto del 5%, la disoccupazione sia un fatto fisiologico, non patologico. Ora, la nostra disoccupazione a fine 2019 era del 9,8% e riguardava 2,4 milioni di persone. Se avessimo saputo attivare i percorsi necessari per coprire quegli 1,2 milioni di posti di lavoro disponibili, la nostra disoccupazione si sarebbe dimezzata, sarebbe scesa sotto il 5%. E quei posti sarebbero stati disponibili senza bisogno di una lira d’incentivo, senza bisogno d’investimenti: non solo non occorreva spesa pubblica per incentivarli, ma ci sarebbe stato maggior gettito per l’Erario; sarebbe stata quindi un’operazione in puro guadagno.

Allora, incominciamo col dire che quello squilibrio fra domanda e offerta di cui si parla nelle prime pagine di manuali del diritto del lavoro non è affatto una maledizione divina da cui non ci si possa liberare: ciò che realmente manca, nel nostro tessuto produttivo, prima che la domanda di lavoro, sono i servizi al mercato del lavoro che consentano alla domanda di trovare la sua offerta. Tant’è vero che l’Ocse propone un interessante confronto tra i livelli del tasso di disoccupazione e l’efficienza dei servizi al mercato del lavoro.

Quando le caratteristiche di domanda e offerta di lavoro non corrispondono, si parla di mismatch. Bene, i paesi che hanno i tassi più alti di disoccupazione sono anche i paesi che hanno il più alto tasso di mismatch, cioè di non-corrispondenza tra ciò che viene chiesto dalle imprese e ciò che viene offerto dalle persone in cerca di lavoro. Nel sito lavoce.info, possiamo leggere due recenti articoli di economisti che dicono esattamente questo: l’Italia brilla per l’inefficienza dei suoi servizi per l’impiego. Mancano sia da un punto di vista qualitativo sia da un punto di vista quantitativo; e non può che essere così in un paese in cui, in una crisi gravissima come quella che stiamo attraversando, si spendono decine di miliardi di euro per le politiche passive del lavoro, cioè per il puro e semplice sostegno al reddito di chi perde il lavoro o di chi è sospeso dal lavoro – cosa doverosa, ovviamente – ma a fronte di queste decine di miliardi non si spende un euro per le politiche attive, cioè per costruire i percorsi più efficaci che portino le persone a potersi candidare ai posti esistenti e quindi, in qualche misura, a poter scegliere tra le occasioni esistenti.

La tesi del mio libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli) è dunque questa: già oggi la metà professionalmente più robusta della forza lavoro sceglie l’imprenditore. Le persone che vivono del proprio lavoro scelgono l’impresa quando iniziano la propria carriera, decidendo se indirizzarsi verso un settore o un altro, una fascia di professionalità piuttosto che un’altra, verso la grande impresa piuttosto che la piccola; oppure, insoddisfatti della domanda di lavoro espressa dal tessuto produttivo nella loro zona, migrano verso altre zone: anche questo è scegliersi l’imprenditore. Non solo, ma queste persone scelgono l’imprenditore anche più volte nel corso della loro vita lavorativa. Le scienze sociali ci dicono che in questa metà della forza lavoro, nel corso della vita lavorativa, il tasso di mobilità spontanea è all’incirca lo stesso in Italia rispetto ai paesi scandinavi e agli Stati Uniti. Queste persone cambiano lavoro spontaneamente perché scelgono un’altra impresa capace di valorizzare meglio il loro lavoro.

Non c’è fonte di dignità del lavoro, di forza contrattuale, di libertà effettiva del lavoratore migliore di quella che consiste nel potersene andare da un’azienda dove non si è trattati abbastanza bene per trasferirsi in un’altra dove si è trattati meglio. In altre parole: potere sfruttare la concorrenza tra imprenditori.

Il problema è la metà professionalmente debole, che non riesce a esercitare questa possibilità di scelta. Non riesce perché ha bisogno di servizi: in paesi più civili del nostro, la persona che cerca lavoro – perché lo ha perso o è insoddisfatto del proprio – ha a disposizione sportelli unici nel centro delle città, i cosiddetti “one stop shop”, dove trova il job advisor che le insegna a usare internet – una fonte molto importante di notizie sul mercato del lavoro –, che traccia il profilo delle sue attitudini, delle sue aspirazioni e, se nota un gap tra attitudini e aspirazioni, la mette in guardia contro il rischio che ne deriva. Molto spesso, la disoccupazione giovanile nasce dalla non corrispondenza fra l’aspirazione e le capacità effettive, oppure dal fatto che manca qualcuno che fornisca informazioni essenziali, ignorando le quali si entra in un vicolo cieco da cui difficilmente si riesce a uscire da soli. Ecco, questo fanno i job advisor nei paesi più avanzati: persone che, per imparare a fare quel mestiere, si sono fatte dai due ai tre anni di formazione specialistica post-laurea. Da noi si è preteso di affidare questo compito a qualche migliaio di persone totalmente prive di esperienza e di capacità specifiche, i cosiddetti navigator, ai quali è stato offerto soltanto un corso di venti giorni sui temi del mercato del lavoro. Per di più, non abbiamo un management in condizioni di organizzare un servizio di questo genere, di stabilirne gli strumenti, le modalità e i controlli di produttività.

Insomma, la debolezza del lavoratore non nasce da una maledizione divina, ma da una mancanza di questi servizi: chi ha perso il lavoro in un’azienda decotta, che comunque non avrebbe potuto offrirglielo più a lungo, in Italia non sa come fare e si reca dal sindaco o dal parroco o dal politico di turno per una raccomandazione. Questo è l’effetto della mancanza di veri servizi per il lavoro: gli one stop shop e i job advisor competenti a disposizione di tutti, in Italia non ci sono.

A questo proposito mi chiedo: perché il sindacato in Italia di queste cose non si occupa? Avete mai sentito parlare di uno sciopero – anche simbolico, di soli dieci minuti – per il buon funzionamento dei servizi del mercato del lavoro?

La formazione professionale dovrebbe essere mirata prioritariamente ai posti permanentemente scoperti e organizzata in collaborazione con le imprese che cercano e non trovano. Ma questo implica che si controlli la qualità della formazione professionale e si finanzi solo quella che produce l’effetto atteso. Quindi che si organizzi un monitoraggio permanente, capillare, che consenta di rilevare il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi: questo fanno i paesi dove le cose funzionano. E in quei paesi i job advisor possono fare il loro mestiere perché dispongono di questo dato. Ma non in Italia: l’anagrafe della formazione, l’incrocio dei suoi dati con i dati delle comunicazioni obbligatorie, delle iscrizioni agli albi professionali, delle iscrizioni alle liste di disoccupazione – che è quello che consente di rilevare, appunto, il tasso di coerenza – da noi non si fa. La regola, da noi, è che il sistema della formazione professionale funziona avendo al centro l’interesse degli addetti, non quello degli utenti. Si tiene in piedi un corso per non licenziare i formatori, non perché è utile per dare la possibilità ai cittadini di scegliersi il lavoro, per consentire alle persone che vivono del proprio lavoro di uscire dalla loro condizione di inferiorità nei confronti delle imprese.

Il titolo del mio libro, L’intelligenza del lavoro – intelligenza vuol dire “saper leggere dentro una cosa” – allude al saper leggere il mercato del lavoro, saperne capire i meccanismi, che cosa offre, con quali strumenti e quali percorsi. Alcuni dispongono in qualche misura di questa intelligenza perché sono inseriti in reti parentali, professionali, amicali che forniscono loro informazioni e contatti utili; altri no. La debolezza della parte più svantaggiata della forza-lavoro nasce dalla mancanza di questa capacità di leggere e usare il mercato del lavoro, dalla mancanza di corsi di formazione mirati agli sbocchi effettivamente esistenti, che consentano di aumentare le proprie possibilità di scelta.

Pensate ai rider: un rider che vuole smettere di fare il rider dovrebbe potere andare allo one stop shop e dire: “Io voglio smettere di fare soltanto quello che sa pedalare e rispondere al telefonino. Voglio qualcosa di più. Cosa mi offre il mercato?”. Il job advisor gli chiederebbe: “Cos’hai fatto finora? Guarda, adatte a te, raggiungibili in tre mesi ci sono queste possibilità, in sei mesi queste altre, in dodici mesi queste altre. E siamo pronti a sostenere il tuo reddito durante il periodo necessario per questa transizione”.

In Italia mancano – anche oggi, nel pieno di una crisi economica spaventosa – infermieri, operatori sanitari, panificatori, macellai, sarti, tecnici informatici, addetti ai servizi alle famiglie e alle comunità locali. In Italia ogni anno chiudono 20.000 imprese artigiane per raggiunti limiti di età del titolare, senza che vengano trasmessi alle nuove generazioni né il know-how professionale né l’avviamento commerciale. Chi informa i nostri giovani di tutto questo?

La protezione efficace dei rider va realizzata non con regole che rendono di fatto impossibile il loro lavoro attuale, ma consentendo loro di investire sulla propria transizione verso lavori di maggiore contenuto professionale.

In Italia, come in tanti altri paesi nostri partner, è possibile un sistema di protezione del lavoro non basato sulla capite deminutio, come dicono i giuristi, cioè sulla privazione della capacità di agire giuridicamente, ma sull’empowerment, sul mettere a disposizione delle persone, soprattutto di quelle più deboli, gli strumenti per allargare la loro capacità effettiva di scegliere nel mercato del lavoro. Cosa c’è di meglio della possibilità di scegliere fra vari corsi di formazione con tassi di coerenza alti e con un’indennità di formazione che ti consenta di fare quell’investimento? I soldi ci sarebbero: spendiamo miliardi in formazione, molto spesso male; e ne avremmo a disposizione anche molti di più di quelli che spendiamo. La mia convinta opinione è che le sorti dell’emancipazione del lavoro passino non attraverso una riduzione della libertà effettiva di scelta delle persone nel mercato del lavoro, ma attraverso un suo ampliamento.

* Giurista, giornalista e politico italiano. Qui il suo sito Internet.

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